Economia, produzione e benessere!

Economia, produzione e benessere!
In questo marasma, proviamo dibattere nella maniera più semplice possibile, su alcune questioni basilari affinché i discorsi sull’economia ed il mercato non si abbassi, sempre e comunque, al livello di “Questo lo dice Lei“.

Sentiamo sempre più spesso parlare i politici di economia e di mercato, commettendo errori talmente gravi, che basterebbe già il buonsenso per capire che qualcosa in quello che ci viene raccontato proprio non va.

In primo luogo, per consumare un bene prima è necessario produrlo.
La produzione viene necessariamente prima del consumo, ciò pare ovvio e alquanto scontato ma per consumare qualcosa questa deve esistere, essendo impossibile consumare un qualcosa che non è stato ancora creato o prodotto.
Sebbene come abbiamo visto ciò sia ovvio e comprensibilmente logico, questo fatto viene sistematicamente e ripetutamente ignorato.

L’idea che lo Stato attraverso le politiche messe in atto dal suo Governo, debba “artificiosamente stimolare il consumo della popolazione”, attraverso incentivi fiscali o bonus specifici, realizzati in maniera tale che lo stimolo stesso, incentivi la produzione e di conseguenza l’intera economia, è predominante nella politica economica odierna, nei media ed oggi persino in alcuni ambienti accademici economici.

Tutto ciò è una vera e propria inversione di causa ed effetto.
I beni di consumo sono il risultato finale di una lunga “catena” che coinvolge più processi di produzione, quasi sempre, interconnessi tra di loro e chiamata “struttura di produzione“.

Anche la produzione di un oggetto apparentemente semplice, come una matita o un tramezzino, richiede un’intricata rete di processi produttivi che necessitano tempo per essere completati e che si estendono molto spesso, e oggi più che mai in passato, tra più Nazioni e addirittura tra i vari continenti.

Stimolare il consumo, può pertanto non generare necessariamente e automaticamente crescita economica, in quanto è il consumo stesso ad essere l’obiettivo finale della produzione dei beni e dei servizi.
In una società libera, le persone e le aziende producono seguendo il proprio tornaconto, ciò che gli altri vogliono consumare e pertanto in un libero mercato non ha senso dal punto di vista economico produrre qualcosa che nessuno consumerà mai.
I programmi dei governi che sono mirati alla “creazione artificiale” di posti di lavoro, trasformano la produzione nell’obiettivo finale dei loro programmi, senza però tenere in debito conto del consumo reale ed effettivo di quella produzione e soprattutto dell’effettiva necessità anche sociale dei beni prodotti o dei servizi offerti.

Creare i posti di lavoro “artificialmente” in questa maniera, significa stimolare la produzione di qualcosa che non verrebbe volontariamente richiesto dai consumatori e quindi dal mercato, alterando così il normale ciclo tra domanda ed offerta.

Sono i consumatori e solo loro, che attribuiscono il “valore” ai beni.
Questi associando un “valore” ai beni di consumo, indirettamente attribuiscono il “valore” anche ai fattori relativi alla loro produzione ed al suo costo.

Sono pertanto i consumatori, a determinare se pur indirettamente, anche il valore del lavoro, delle materie prime e di tutti i macchinari e le attrezzature utilizzate in tutti i processi produttivi relativi alla produzione dei beni stessi.

Ignorare le reali esigenze del consumatore e voler pertanto creare artificialmente processi produttivi che non siano in linea con i desideri dei consumatori stessi, è una misura che va contro la realtà effettiva delle cose e quindi dei mercati.

Tale misura potrebbe risultare in alcuni casi anche potenzialmente distruttiva sotto il profilo economico, poiché può portare alla immobilizzazione del mercato del lavoro quando questo dovesse produrre beni che non vengono richiesti e quindi consumati dalla popolazione, con la conseguente distruzione di capitale e ricchezza.

Un’altra regola basilare dell’economia e del mercato, è che niente è mai “gratis“ ne può esserlo, ma tutto ha sempre e comunque un costo.

Se si riceve qualcosa in maniera apparentemente gratuita, significa che c’è qualcun altro che la sta pagando per noi.

Dietro ogni forma di welfare, si trovano esclusivamente le tasse delle persone e delle aziende che lavorano e producono, oppure il debito pubblico dello Stato, che per finanziare tutto ciò, si fa prestare il denaro dal mercato, in quanto nella realtà dei fatti, non esistono i “soldi pubblici”.

Sebbene tutti i contribuenti sappiano che è lo Stato a prendere parte del loro reddito, non sanno mai in realtà a chi o dove vanno questi soldi, al contempo i destinatari di questo denaro e dei servizi con lo stesso denaro finanziati, sanno che c’è lo Stato che è dietro a tutto ciò, ma non sanno da chi questi ha preso quei soldi.

Il modo in cui ogni individuo attribuisce valore ad un bene, è soggettivo e varia in base alla situazione ed ai gusti di questo individuo, lo stesso “bene” ha quasi certamente valori diversi, per persone diverse ed in luoghi diversi.

L’utilità di ciascun bene è sempre soggettiva, individuale, situazionale e perfino marginale, pertanto, non può esistere qualcosa come il “consumo collettivo“ di un bene.

Per fare una semplice e facilmente comprensibile esemplificazione in merito, anche la temperatura di una stanza porta sensazioni diverse a ogni persona presente nella stanza stessa, così come la stessa partita di calcio, ha valori soggettivi diversi per gli spettatori che la seguono, com’è particolarmente evidente quando una delle due squadre, per esempio fa un goal.

Un’altra regola economica basilare di cui si deve tenere sempre di conto, è quella che determina il valore del lavoro.

La produzione di un individuo durante un certo periodo di tempo, determina quanto questo può guadagnare durante quel periodo di tempo.
Quanto più l’individuo produce di un bene o di un servizio (volontariamente richiesto dai consumatori), in un certo periodo di tempo, tanto maggiore sarà la sua remunerazione.

In un mercato del lavoro veramente libero, le imprese assumeranno manodopera aggiuntiva laddove la produttività marginale di ciascuno di questi lavoratori è superiore al loro stipendio (ovvero al loro costo).

In altre parole, ogni volta che un lavoratore aggiuntivo è in grado di generare entrate maggiori delle spese, sarà assunto, mentre la competizione tra le varie aziende, farà così aumentare i salari fino al punto in cui questo equivale alla produttività stessa.

Il potere dei sindacati può certamente cambiare la distribuzione dei salari tra i diversi gruppi di lavoratori, ma non può aumentare il valore totale dei salari di tutti quei lavoratori, che comunque dipendono interamente ed esclusivamente dalla produttività totale dell’azienda stessa.

Le spese di produzione dei beni rappresentano, allo stesso tempo, entrate per alcuni soggetti e costi per altri.
Secondo i keynesiani tutta la spesa genera reddito, dimenticano al però o facendo finta di farlo, che ogni spesa è anche allo stesso tempo un costo.
La spesa è al contempo un costo per il compratore ed un reddito per il venditore.
Il meccanismo del moltiplicatore keynesiano del reddito dice che più spendi, più diventi ricco, pertanto più tutti spendono, più tutti diventano ricchi, ma se il reddito si moltiplica, anche i costi contemporaneamente si moltiplicano.

Gravi errori di politica economica si verificano anche quando le politiche governative degli Stati, spiegano le spese pubbliche da questi effettuate unicamente dal punto di vista del reddito, ignorando completamente l’effetto sul bilancio delle Stato stesso dei relativi costi.
Le spese, quindi sono costi, il moltiplicatore del reddito (per alcuni) implica anche la moltiplicazione dei costi (per altri).
Un altro aspetto interessante su cui indagare, è il valore del denaro in relazione alla ricchezza.

Possedere denaro, cosa che potrebbe sembrare in prima istanza paradossale, di per se non è sinonimo ricchezza, ma il valore del denaro è costituito esclusivamente dal tuo potere d’acquisto.

Il denaro serve come strumento per fare scambi, maggiore è il potere d’acquisto del denaro, maggiore è pertanto la sua capacità di fare scambi.

Ma essendo il denaro solo un mezzo di scambio, la ricchezza deriva esclusivamente dall’abbondanza di beni e servizi che possono essere acquistati con il denaro stesso.

La ricchezza di un individuo risiede, quindi, nella sua capacità di avere accesso ai beni e ai servizi che desidera.

Quando il governo di uno Stato crea più denaro, non sta di fatto creando più ricchezza, una Nazione non può aumentare la propria ricchezza semplicemente aumentando esclusivamente, la quantità di denaro in circolazione, stampando moneta.

Robinson Crusoe, non sarebbe più ricco se avesse trovato una miniera d’oro oppure una valigia stracolma di denaro sull’isola dove era naufragato, essendo questa isolata dal resto del mondo e senza pertanto poter scambiare il suo denaro con merci o servizi che ovviamente sulla stessa non erano presenti.
Il lavoro pertanto da solo non crea valore, invece il lavoro se combinato con altri fattori di produzione, quali materie prime, strumenti e infrastrutture, crea prodotti e servizi, ma in ultimo il valore di questi prodotti e servizi dipende esclusivamente da quanto questi siano utili per il consumatore.

L’utilità di ogni prodotto dipende quindi dalla valutazione soggettiva fatta da ciascun individuo, ed è per questo motivo che creare posti di lavoro, solo per avere più posti di lavoro, è economicamente poco saggio e rilavante, ciò che conta davvero è la creazione di valore e non quanto sia capace di produrre un individuo per se stesso.
Per essere utile, un prodotto o un servizio deve generare benefici per il consumatore.

Il valore di un bene o servizio non è nemmeno direttamente collegato allo “sforzo” richiesto per produrlo.
Un uomo potrebbe passare centinaia di ore a fare gelati o scavare buche, ma se nessuno assegna alcun valore a questi gelati o a queste buche e quindi non li apprezza abbastanza da pagarli, questi prodotti non avranno alcun valore, nonostante le centinaia di ore trascorse nella loro realizzazione.
Nel capitalismo di libero mercato, il profitto economico è il bonus extra che un’azienda guadagna perché ha saputo allocare correttamente le risorse e ha saputo soddisfare le esigenze dei consumatori.

In un’economia stazionaria in cui non si verificano cambiamenti, non ci sarebbero né profitti né perdite e tutte le società avrebbero lo stesso tasso di rendimento.

In un’economia dinamica ed in crescita, ci sono cambiamenti quotidiani nei desideri dei consumatori, e sono coloro che sono maggiormente in grado di anticipare questi cambiamenti nei desideri dei consumatori e che sanno indirizzare le risorse, il lavoro, le materie prime ed i beni capitali, per soddisfare questi consumatori ne trarranno benefici economici.

Gli imprenditori capaci di anticipare le future esigenze dei consumatori raccoglieranno i più alti tassi di profitto e cresceranno.
Gli imprenditori che non hanno questa capacità di anticipare i desideri dei consumatori si ridurranno fino a quando non saranno espulsi dal mercato, questo processo viene anche chiamato “distruzione creativa“.

Tutte le “leggi economiche” sono logiche e non emotive, sono aprioristiche, il che significa che non devono essere verificate in precedenza e non possono essere falsificate empiricamente.
Sono anche auto evidenti, poiché si manifestano tramite le interazioni fra individui ed è giusto e necessario osservare il comportamento degli stessi nella società per riconoscerle.

È certamente possibile ignorare ed anche violare le leggi fondamentali dell’economia e del mercato come fanno oramai sistematicamente da decenni anche i nostri Governi con politiche frammentate e incoerenti, fatte d’incentivi, bonus e mancette di varia natura, invece di fare riforme sia di carattere fiscale, che del mercato del lavoro, infrastrutturali e di sistema che diano prospettive di crescita e di benessere al nostro Paese.

Cambiare si può, anzi cambiare si deve.
Se non adesso quando!

Fabrizio Biagioni

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Estratto da www.noiliberali.it/post.asp?id=124