Per governare davvero la destra deve dotarsi di una classe dirigente tecnica

Per governare davvero la destra deve dotarsi di una classe dirigente tecnica
Mentre dall’Ucraina spirano infuocati venti di guerra e sull’Italia si addensano cupe nubi di crisi economica, rinfocolata da due anni di restrizioni e limitazioni anti-pandemiche, due sono i fatti politici di rilievo nell’area del centrodestra: la convention nazionale programmatica di Fratelli d’Italia, tenuta a Milano, e la registrazione notarile da parte della Lega dello statuto del soggetto politico ‘Prima l’Italia’ che dovrebbe fungere da aggregatore della Lega e di Forza Italia, almeno secondo le intenzioni salviniane.

Sullo sfondo, autentico convitato di pietra, lo sfilacciamento dello schieramento di centrodestra, propiziato da uno squassante moto entropico innescato a sua volta da una lotta intestina per la leadership di uno schieramento che appare sempre meno coeso, e decisamente prossimo a una crisi di nervi.

In questi mesi, nonostante alcune voci si siano levate in aria per ricordare ai due leader politici, Meloni e Salvini, la fallibilità delle vicende umane e la necessità di darsi una struttura complessivamente devoluta alla idea di governo e di gestione del potere, la lotta accelerata per il vertice della piramide è andata avanti, di punzecchiatura in punzecchiatura, di polemica in polemica.

Già le amministrative a Milano e a Roma avevano adombrato il sospetto che non ci fosse una piena corresponsione d’amorosi sensi tra Salvini e Meloni e tra i due rispettivi soggetti politici: scelte dei candidati disastrose, campagne elettorali in ordine sparso, continui mugugni e rimbrotti. E su tutto, l’assenza di una visione complessiva e unitaria.

Daniele Capezzone aveva increspato le immote acque del pantano culturale e politico dentro cui il centrodestra si è incastrato, e incartato, con le proprie mani, con il suo “Per una nuova destra”: una serie di analisi e suggerimenti per modellare una destra più al passo coi tempi e soprattutto in grado di darsi una identità, spezzando l’ingrigita gabbia delle oscillazioni ripetute di ricette economiche, culturali, sociali spesso in contraddizione tra di loro con cui i due maggiori partiti del centrodestra si sono spesso gingillati.

Anche Pietrangelo Buttafuoco ha tentato a più riprese di collegare il crescente entusiasmo popolare, indicato dai sondaggi, con la critica necessità che la destra italiana trovi un proprio orizzonte di riferimento, una qualche identità e organica omogeneità e vi aderisca per autocostituirsi una prospettiva di insieme e di governo.

Ma spesso si ha la sensazione, dolorosa ma autoevidente, che la impermeabilità del centrodestra alle analisi serie e ponderate e alle critiche costruttive sia ormai una malattia in fase terminale.

Le parole sagge di chi vorrebbe consigliare vengono scrollate di dosso, con evidente fastidio: qualunque critica diventa in automatico lesa maestà, ogni capillare analisi fa imbronciare le espressioni dei volti. Si vorrebbe sempre e solo un peana di gioia e di partecipazione emotiva, un mantra del “Sì” o del “è tutto perfetto” ripetuto fino allo sfinimento. Ma non sono queste le premesse per vincere e governare davvero.

In effetti, in questi ultimi mesi abbiamo assistito ad una autentica girandola di definizioni e di (auto)descrizioni buttate un po’ là a casaccio dai due partiti maggioritari del centrodestra, un esercizio mantrico più confacente a una cortina fumogena per distogliere l’attenzione piuttosto che una seria introspezione per razionalizzare il proprio cammino politico e capire davvero cosa si è e cosa si vorrebbe essere.

Liberalismo, conservatorismo, patriottismo, sovranismo, etichette semantiche che hanno prodotto un rumore di fondo spesso privo di una sostanza profonda: perché, diciamolo con brutale franchezza, non basta dirsi o accennare vagamente un concetto o un campo politico per esserne riconosciuti come esponenti, se poi a questa adesione nominalistica non consegue più o meno coerentemente una adesione sostanziale e programmatica.

C’è però un aspetto che accomuna, in negativo, i due partiti: la assenza di una propria classe dirigente tecnica.

Durante la convention milanese, Giorgia Meloni ha affrontato il discorso della presunta assenza di una classe dirigente politica che alcuni commentatori riferiscono a FdI come uno dei principali problemi in prospettiva di un eventuale governo: la Meloni ha ironizzato sul fatto che se una pandemia epocale è stata affrontata da un ministro come Speranza e una guerra nel cuore dell’Europa da un ministro degli esteri come Di Maio, non si potrebbe poi dire che FdI faccia registrare una assenza di classe dirigente idonea a governare.

Se però adottiamo una ulteriore, alternativa angolazione prospettica, traslandoci dal piano politico a quello tecnico, la situazione cambia e diventa oggettivamente drammatica: perché il politico, per attuare i propri indirizzi di governo, deve circondarsi di tecnici non solo capaci e preparati e relazionalmente ricchi di quei contatti che possano divellere le incrostazioni della sclerotizzata burocrazia italiana ma che pure abbiano una qualche affinità politica con il governante di cui eseguono le direttive.

Detto in altri termini: la destra italiana, e questo discorso vale tanto per FdI quanto per la Lega, deve dotarsi di una propria cerchia di tecnici che sappiano e possano trasformare gli input politici in atti legislativi e amministrativi.

Una simile cerchia, lo si capisce agevolmente, non si può improvvisare né si costruisce in poco tempo. È un percorso organico, serio, difficoltoso, che implica selezione, relazioni, contatti consolidati, valutazione, costruzione di autentiche squadre di persone preparate e competenti, di certo non improvvisate.

Senza dubbio, secondo quanto ricostruito da Il Foglio, la convention milanese di FdI è stata anche palcoscenico per un avvicinamento all’universo meloniano di una serie di importanti figure del potere amministrativo ed economico del Paese: ma si tratta, appare evidente, di un primo passo e la sfida più grande in questo senso è il consolidamento di contatti che altrimenti rischierebbero di rimanere soltanto meri episodi.

Chiunque frequenti le stanze del potere sa bene che senza una classe dirigente tecnica confacente e non ostile governare è impossibile. Si occupa la sedia del vertice politico ma lo si fa con piglio meramente ornamentale perché saranno poi altri uffici e altri soggetti a decidere e a governare davvero, spesso in maniera confliggente rispetto quel che vorrebbe fare il ministro o il sottosegretario di turno.

Ed è altrettanto noto a qualunque insider quanto fatichino i governanti in quota non progressista, spesso letteralmente assediati nelle loro stanze e che per veder trasformare in atto concreto una idea, un progetto o una nomina devono superare erculee fatiche, mentre ai loro omologhi di sinistra, che tanto hanno seminato e connesso in una rete di potere durante il corso degli anni, basta una semplice telefonata.

Ma non è questione di Deep State, perché non c’è proprio nulla di occulto o di profondo in questa pozza, in questa palude che sembrerebbe impantanare e boicottare le decisioni politiche dei governanti di destra. È al massimo una pozzetta melmosa di 2 centimetri, e se uno ci annega dentro è un problema suo, causato dalle sue inefficienze e dalle sue mancanze e dimenticanze, non certo una giustificazione dettata dalla consistenza insormontabile del problema o dalla profondità oceanica della palude del potere.

Il potere va dove il potere viene esercitato sul serio. Con lucida e fredda determinazione. La autopoiesi dei corpi burocratici, impermeabili alle lusinghe della politica, vissuta come meramente transitoria, e fedeli alla loro intrinseca razionalità, ha certamente un fondamento di verità, ma il burocrate è pur sempre un uomo, e come tale è sensibile a chi sappia valorizzarlo, promuoverlo e garantirgli un orizzonte di qualche successo: per questo il potere rispetta e comprende soltanto il linguaggio di chi il potere lo vive e gestisce sul serio.

Tecnico sbagliato nel posto sbagliato, e il governante potrà matematicamente esser certo che sulla strada della realizzazione di una certa idea si staglieranno sempre problemi, complicazioni, attese geologiche, e che ogni sua richiesta di informazioni sarà evasa, se mai lo sarà, in maniera pigra e svogliata. Una sorta di suicidio politico assistito.

Qui si aprono due problemi, in apparenza enormi.

Il primo è la selezione di una propria cerchia di soggetti che possano vantare competenze di matrice tecnica nei vari settori funzionali all’arte di governo: dalla comunicazione istituzionale ai vari rami del diritto con cui si deve confrontare la burocrazia, per arrivare poi alle altissime figure tecniche spendibili come vertici amministrativi degli uffici più delicati, come quello di gabinetto o del legislativo, autentici snodi essenziali della congiunzione tra volontà politica e sua realizzazione empirica.

Le soluzioni sono, chiaramente, non semplici. Una è quella della edificazione ex novo di una propria classe dirigente tecnica, mediante la strutturazione di dipartimenti funzionalmente interconnessi alle attribuzioni dei vari ministeri: scouting nelle università, sia lato docenti/ricercatori sia lato studenti, nelle imprese, nelle amministrazioni, nella magistratura, al fine di individuare e poter selezionare figure che tornino utili e che abbiano una propensione ideologica non ostile e procedere poi alla sequenziale immissione di queste figure nei dipartimenti, per utilizzarle nella elaborazione di linee programmatiche e servirsene una volta che ve ne sia necessità, ovvero quando si dovranno strutturare gli uffici di un ministero o di un dipartimento regionale.

Più complessa è la formazione mediante la istituzione di scuole tecnico-politiche, procedimento lungo, complesso, spesso tortuoso e farraginoso: le forze politiche dovrebbero decidere di dotarsi di proprie scuole che non ambiscano a formare solo figure politiche ma anche tecnici politicamente orientati.

La destra dovrebbe poi superare il proprio ontologico masochismo che l’ha sempre portata, quando si palesino esigenze di procedere a nomine, a farsela letteralmente sotto nel poter pensare, anche solo lontanamente, di nominare persone affini: la storia dei governi, nazionali o locali, da parte di forze politiche di destra è un tripudio, un trionfo di tecnici, esperti, consulenti, consiglieri appartenenti all’altra parte politica.

Un misto di nanismo politico, scarsa convinzione, citato masochismo, di paura del giudizio altrui o della stampa (che tanto sarà comunque negativo e censorio, figurarsi), di scarsità di figure di riferimento, porta la destra quando ascende alle stanze del potere a circondarsi di tecnici ideologicamente ostili o addirittura a non prendere le difese dei propri quando questi entrano nel tritacarne mediatico o della polemica politica.

La vicenda dei “consulenti liberisti” mai davvero contrattualizzati dal governo, dopo appelli, lettere aperte contro il neoliberismo imperante, è indice paradigmatico di quanto si afferma: a prescindere dal pur grave caso di specie, in quella storia c’è stato davvero di tutto.

Spalle voltate dall’altra parte, telefoni spenti, mutismo selettivo, dimenticanza, nessuna difesa nemmeno parziale, mentre l’altra parte politica continuava a nominare, celebrare, istituire, affidare consulenze e incarichi ai propri nomi di fiducia.

Sarebbe, anche per questo, buona cosa superare certi slanci tribali e certe faide e certe idiosincrasie dettate da mere antipatie personali: spesso il tecnico ideologicamente affine non viene nominato solo perché è inviso al capetto di turno, e quando lo si scarta si finisce sempre per sostituirlo con una figura che si rivelerà ostile.

C’è un altro aspetto essenziale: il tempismo, il farsi trovare pronti. La destra italiana ha condotto spesso scarsamente convinte campagne elettorali in assenza di una qualunque squadra tecnica di governo. Il risultato è devastante, perché quando poi ci si afferma non si ha più tempo per guardarsi attorno e compiere le scelte essenziali a mente lucida e fredda. Ci si fa prendere dall’angoscia, dall’ansia, i contatti diventano frenetici, le scelte spesso abborracciate o peggio del tutto sbagliate.

Nel 2023 si voterà non solo per il rinnovo della legislatura, che andrà a scadenza naturale e sempre che non si realizzino intoppi tali da far saltare il banco prima del tempo, ma anche per politicamente essenziali Regioni come Lazio e Lombardia. Un antipasto lo avremo con la Sicilia e con le comunali a cui il centrodestra sembra pronto a immolarsi sull’altare della divisione. Al di là dell’aspetto puramente politico-strategico, ci sono squadre tecniche pronte ad affiancare i governanti in caso di esito vittorioso?

Ho fondati motivi per dubitarne. Motivi che originano dalla analisi e dalla considerazione di quanto avvenuto storicamente fino ad oggi, senza che possa apprezzarsi una qualche organica inversione di rotta.

Prima i partiti del centrodestra lo capiranno, prima riusciranno a poter dire di essere davvero pronti a governare. In caso contrario, si condanneranno alla totale irrilevanza anche laddove dovessero stravincere le elezioni.

di Andrea Venanzoni
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Estratto da www.noiliberali.it/post.asp?id=145