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Il populismo egualitario che distrugge il fisco
Francesco Bencivenga - www.leoniblog.it
Qualche sera fa mi sono imbattuto nell’ennesimo esempio di disinformazione in materia tributaria, funzionale all’attuale propaganda di regime a supporto della tirannia fiscale.
Durante un talk show politico, veniva illustrata la proposta del centrodestra di introdurre un’aliquota Irpef unica – la cosiddetta flat tax – come misura di riduzione della pressione fiscale o, se non altro, di semplificazione della macchina fiscale, a cui veniva replicato, da sinistra, che la flat tax sarebbe ingiusta perché, letteralmente, “un notaio pagherebbe quanto un operaio”.
Al che, sono rimasto sconcertato dal vedere che, nel battibecco politico che ne é seguito, nessuno ha chiarito che l’aliquota unica non significa minimamente “imposta uguale per tutti” poiché ovviamente cambia la base imponibile: se il notaio dell’esempio dichiara 500 mila euro di reddito imponibile e l’operaio 25 mila, è evidente che il notaio pagherà venti volte tanto le tasse dell’operaio. E non che fosse inutile: il contatore di consenso che tale trasmissione mostra a video in alto a destra (credo rilevi una qualche interazione dagli spettatori, di cui però non conosco il dettaglio) lasciava sospettare un’approvazione a furor di popolo della critica “un notaio pagherebbe quanto un operaio”.
Dunque è questo il livello del dibattito. E ho l’atroce dubbio che veramente la maggior parte degli italiani pensi che “aliquota unica” sia sinonimo di “imposta uguale per tutti”, come fu per qualche tempo la poll tax di Margaret Thatcher degli anni Ottanta (ricordate?).
Quel che mi sorprende non è tanto che la sinistra cavalchi questo equivoco, per ovvie ragioni di difesa della propria filosofia di oppressione fiscale, quanto che la destra non sappia spiegare al grande pubblico, in maniera semplice e chiara che “il notaio che guadagna di più continua a pagare più tasse dell’operaio che guadagna di meno, anche con l’aliquota unica”.
Ci si sente arresi. Vorremmo almeno portare il livello del dibattito a temi più elevati, come ad esempio la giustificabilità del comando costituzionale di orientare il sistema tributario a criteri di progressività.
Non c’è quindi da sperare che nei dibattiti politici i sostenitori della progressività si appellino alla teoria dell’utilità marginale decrescente del denaro (ed eventualmente confutare tale tesi, che a mio avviso è sprovvista di dimostrazione solida), se siamo fermi al “notaio che paga le tasse come l’operaio”. Vorremmo ascoltare i veri argomenti di chi sostiene che la progressività è giusta ed imposta dalla Costituzione (il testo dell’articolo 53 comma 2 non è così tranciante, a mio avviso), onde magari replicare che attualmente è ridicolo che la progressività sia declinata su scaglioni di reddito concentrati nella fascia in cui si colloca la quasi totalità dei redditi italiani e che la differenza tra gli scaglioni sia ridottissima (lo scaglione con l’aliquota più elevata parte da un reddito appena cinque volte quello dell’aliquota più bassa, quando semmai, per parlare di utilità marginale decrescente, dovremmo avere scaglioni appartenenti a differenti ordini di grandezza, tipo 10 mila, 100 mila, un milione di euro).
Ma ci troveremmo di fronte un uditorio attonito e diffidente, come se stessimo declamando rituali sciamanici in una palelolingua sconosciuta.
Il vero problema del fisco italiano, dunque, è il cocktail micidiale di ignoranza, propaganda e populismo egualitario, accuratamente coltivato dalle forze politiche cattoliche e di sinistra negli ultimi 25 anni (dalla caduta dell’impero sovietico, e non è un caso che questa forma di criptosocialismo sia fiorita in Italia proprio quando sono scomparsi gli esempi dell’inferno del socialismo esplicito) che ha imbottito la testa degli elettori, degli insegnanti (che formano le coscienze dei giovani inoculando loro tesi politiche, senza alcun controllo né responsabilità) e dei funzionari con le seguenti otto “verità evangeliche”:
– la ricchezza è ingiusta e lo stato dovrebbe fare come Robin Hood, rubando ai ricchi per dare ai poveri
– questo si ottiene con un sistema fiscale oppressivo verso i ricchi che finanzia un welfare generoso verso i poveri
– in Italia, i ricchi cercano di sottrarsi a questo dovere di solidarietà e perpetuare l’ingiustizia della disparità economica evadendo il fisco
– l’evasione fiscale in Italia “è la più alta del mondo” e vale, a seconda del meteo della settimana o della quadratura di Saturno con Marte, 60 miliardi, poi 250, anzi no 120, ma forse 175 virgola 42 prematurato come se fosse antani (avrebbe detto il Conte Mascetti di Amici Miei)
– l’evasione fiscale è tutta colpa delle “partite IVA” dato che i dipendenti – poveretti – “non possono evadere” perché hanno la sventura di avere un sostituto di imposta che pensa a tutto: liquidare, trattenere e versare le imposte
– dunque bisogna colpire le partite IVA con misure tiranniche (imposte che colpiscono capacità contributive virtuali, presunzioni di evasione, innalzamento occulto della base imponibile mediante una pletora di eccezioni alla deducibilità di costi, oltre ovviamente ad una prassi amministrativa e una giurisprudenza militante che hanno costruito il mito dello “imprenditore italiano evasore nel DNA”)
– ogni ipotesi di alleggerimento fiscale aiuta i ricchi – spesso, ancorché erroneamente, visti come coincidenti con le partite IVA – e quindi va rigettato e combattuto per principio
– ridurre le tasse significa tagliare le risorse del welfare essenziale per i poveri e consentire ai ricchi di comprarsi case, auto, barche e gioielli “alla faccia dei poveri”, senza cure, senza casa, senza niente
Questa è la narrazione dell’odierna tirannia fiscale italiana. Inutile discettare in punta di fioretto di razionalità economica del “valore della produzione” quale base imponibile IRAP o della condivisibilità delle presunzioni legali a carico del contribuente nei casi di controlli fiscali sui movimenti bancari, di fronte ad una selva di spadoni a due mani mulinati dall’orda lanzichenecca dei tassatori.
E’ una questione di egemonia culturale, per dirla con Gramsci. Oggi gli italiani sono in maggioranza (demografica e dunque democratica) dipendenti, con fasce di reddito entro i 30 mila euro, convinti di aver diritto a prestazioni sociali di ogni genere ed altissimo livello il cui costo sia sopportato dai pochi (e quindi democraticamente insignificanti) “ricchi” borghesi, imprenditori e professionisti.
Fino a che non si troverà il modo di proporre e fare almeno ascoltare una narrazione alternativa, la tirannia fiscale che sta riducendo l’Italia ad una quasi-Grecia e un potenziale futuro Venezuela, non potrà essere efficacemente combattuta.
(Ricevuto 1 commenti)
22/12/2017 - due errori - Il primo è che ormai la (nostra) storia (figlia del socialismo strisciante) ha 'condannato' il 'liberale' ad essere il partito dei ricchi contro i poveri; il secondo la mancanza di capacità di portare avanti una politica di contrasto a questa stravagante idea. Essere liberali significa voler fare il bene di tutti attraverso una politica di libertà. Libertà morale, etica e, soprattutto, economica di imprendere senza regole vessatorie da parte dello stato. Il modello da seguire potrebbe essere, per esempio, quello inglese della semplificazione.
C.Cristofani