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LIBERALI AL VENTO

LIBERALI AL VENTO
Nel rimescolamento dei voti che avvertiamo (sbagliando?) in un prossimo avvenire, i liberali italiani di varia estrazione e collocamento (le sparse membra dell’unica potente ideologia indispensabile a capire e fronteggiare il mondo d’oggi, mentre gli sprovveduti la ritengono superata) vanno muovendosi in piccoli gruppi con l’etichetta specifica e da singoli in altre aggregazioni anche partitiche.

Stiamo forse assistendo, nel panorama italiano, alla rinascita di una “parte liberale” se non di un partito liberale? Per cercare di capirlo, dobbiamo tener ferma una premessa, riassumibile in un aforisma espressivo, che assai ci piace sicuramente perché nostro: “Quando s’incontrano due liberali, formano tre partiti”. È la forza e la debolezza di quel partito della libertà che nel dopoguerra non è stato mai vitale come avrebbe meritato. Sappiamo che questo partito, strettamente inteso, a giudizio di eminenti liberali non può né deve esistere, perché il liberalismo è di per sé “pre-partito” comune alla stragrande maggioranza di una società libera che pretenda di rimanere tale. Ciononostante abbiamo sempre creduto che un partito della libertà, così denominato, fosse indispensabile se non altro come testimone e giudice del liberalismo classico.

Uno sguardo al passato, sulla base della nostra personale esperienza tuttavia emblematica, aiuta a comprendere il nostro punto di vista sul perché questo partito, pur gloriosamente tornato in auge nel dopoguerra con le sue grandissime personalità, ha poi stentato a svilupparsi, fino ad estinguersi.

Nel febbraio 1976 il Pli cambiò il segretario generale, che schierò immediatamente il partito “tra la Dc e il Pci”, una strana posizione rispetto alla natura intrinseca e alla collocazione tradizionale. La decisione fu determinata dalle convinzioni personali del neosegretario e dal generale clima politico e sociale, che portò all’impetuosa crescita elettorale del Pci nelle regionali del 1975 e nelle politiche del 1976 (paura del sorpasso comunista non solo nella Dc e apertura della collaborazione parlamentare tra Dc e Pci), nonché alla sensibile flessione del Pli nelle stesse elezioni. Il Pli volle andare al passo con i tempi ed inserirsi in un vasto moto politico che considerò vincente mentre era morente. Infatti, di lì a poco, nel 1979-80, Stati Uniti e Regno Unito reagirono al corrente andazzo statalista del progressivismo socialistico ed elessero trionfalmente Reagan e Thatcher, due giganti che cambiarono, fino ad invertirlo, il corso della storia mondiale. Nel 1983, dopo le elezioni generali, il Pli tenne il Consiglio nazionale per stabilire se partecipare con propri ministri al primo governo capeggiato da un segretario del Psi. La maggioranza “zanoniana” del Pli era a favore, mentre la minoranza “reganian-thatcheriana” era contraria e presentò una mozione firmata da circa un quinto dei consiglieri nazionali. Al momento del voto, dovemmo costatare (con malinconia e orgoglio) che in calce alla mozione era rimasta leggibile solo la nostra firma mentre le altre firme dell’opposizione interna, formatasi non su una bazzecola, ma su una questione capitale per il partito, erano scolorite. Il nostro richiamo al crociano ircocervo, il connubio tra socialismo e liberalismo, era risuonato stantio alle orecchie di uomini nuovi abbagliati da sdrucite novità: “terza via” e “lib-lab”. Mentre il potente vento di ritorno del liberalismo classico stava per abbattere nientemeno il comunismo sovietico e le sue micidiali propaggini ideologiche e politiche, la barchetta del Pli alzò inopinatamente la vela contro vento. Naufragò. Né all’equipaggio giovò poi arruolarsi nella ciurma di un’altra nave che presto smarrì la rotta dichiarata nell’ingaggio, sebbene su quella rotta quel capitano, che presto la invertì, avesse a onor del vero affondato in battaglia gli epigoni ancora minacciosi dell’italo-comunismo.

Nel marzo 1984 al XVIII congresso del Pli in Torino offrimmo ai congressisti una corposa relazione, pubblicata e intitolata a ragion veduta “La democrazia illiberale”, che costituiva un memorandum sull’Italia di quegli anni, e dimostrammo con dovizia di prove l’indispensabilità di un partito liberale conforme al liberalismo classico e come i mali che affliggevano l’Italia erano la diretta conseguenza dell’averne essa abbandonato i princìpi in politica e in economia. Per spiegare quale fosse (ed è!) il difetto essenziale del partito sbagliato ci servimmo della similitudine di Demostene nella “Prima Filippica”, che illumina in maniera impareggiabile la tara: “I pugili barbari portano le mani là dove ricevono il colpo. Non sanno e non vogliono né parare né prevedere i colpi. Altrettanto fate voi: se vi dicono che Filippo è nel Chersoneso, accorrete lì; se alle Termopili, correte alle Termopili; dovunque insomma gli andate appresso correndo qui e là: il vostro stratego è lui! Non succede mai che decidiate da voi stessi una mossa nel conflitto o che abbiate previsto qualcosa prima di apprendere che è già accaduta o sta accadendo”.

La nostra conclusione, per usare una metafora non demostenica, è che il tricolore nelle cui bande viene iscritto l’acronimo Pli non può essere esposto a qualsiasi vento perché è la bandiera di uno stato di princìpi immutati da secoli, non una banderuola fluttuante alle ventate di stagione. È il plinto su cui edificare con sicurezza per durare. Solo conquistando alla libertà l’opinione degli individui porterà i loro interessi sotto la sua bandiera, il partito del liberalismo. Da ogni punto di vista la vita è migliore dove i princìpi liberali imperano. Lo sa anche chi lo nega!

Pietro Di Muccio de Quattro - opinione.it

http://opinione.it/editoriali/2019/03/15/pietro-di-muccio-de-quattro_liberali-italiani-pli-maggioranza-zanoniana-reagan-thatcher/
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