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Oscar Giannino e le schiene dritte

Oscar Giannino e le schiene dritte
I problemi dell’informazione italiana e i rischi del conformismo.

L’informazione è fatta per i governati, non per i governanti. Ha dovuto ricordare questa semplice verità, Oscar Giannino, prima di prendere congedo dai suoi ascoltatori di Radio 24. La vicenda è nota ed è stata variamente commentata: il giornalista lascia l’emittente di cui era una delle voci più popolari. Forse tra qualche settimana ne sapremo di più: soprattutto, capiremo su quali frequenze sintonizzarci – o semplicemente quale podcast scaricare – per ascoltare le analisi di quello che è certamente uno dei commentatori più brillanti ed originali del panorama italiano.

Non sono ancora del tutto chiari i dettagli di questo divorzio, che era comunque nell’aria da tempo. Già da alcuni mesi, Giannino aveva fatto capire che il suo stile di conduzione e la sua stessa impostazione giornalistica non incontravano il gradimento dell’editore. Appariva troppo severo con i politici, e troppo schietto nelle interviste mattutine. Troppe domande, e soprattutto non quelle che i politici avrebbero voluto. Troppe interruzioni, quando gli interlocutori mentivano o si contraddicevano. E poi troppo corrosivo verso il governo. Lo era stato anche verso i precedenti, in realtà. Ma questo è il governo del cambiamento. E quindi devono cambiare anche i giornalisti, soprattutto quelli critici.

Il rapporto tra giornalista ed editore
Questa faccenda potrebbe apparire come una semplice divergenza di vedute fra un giornalista e il suo editore, o come un fisiologico cambio della guardia ai microfoni di un’emittente di primo piano. Ma non è soltanto questo. L’episodio suggerisce infatti alcune riflessioni di natura complessiva.

Per motivi di ordine storico, la società italiana non ha coltivato a sufficienza – e non ha sviluppato uniformemente – le virtù dell’autonomia e dell’indipendenza. Il giornalismo – che ha avuto storicamente molti meriti e che ha espresso ottimi professionisti – è stato spesso interpretato più come militanza di parte che come una delle tante forme di controllo democratico verso l’operato dei governanti. A questi ultimi i cittadini hanno chiesto molte cose – non tutte ragionevoli -, ma raramente hanno preteso da essi una qualche forma di accountability. Divisi per bande e fazioni, molti elettori si mostrano appagati dalle parole d’ordine dei comizi televisivi o dei soliloqui su Facebook di quei leader che hanno eletto al rango di eroi e vendicatori.

A questo radicato spirito settario – che oggi è eloquentemente rappresentato dalle discussioni sui social network: un misto fra il tifo da stadio e i litigi dell’asilo – si aggiunge un generale fraintendimento sul corretto rapporto che dovrebbe legare rappresentati e rappresentanti. Per quanto possa apparire sconfortante, bisogna riconoscere che numerosi cittadini non hanno maturato un atteggiamento laico e pragmatico – e allo stesso tempo idealista e propositivo – verso la lotta politica. In essa riversano sentimenti confusi che vanno dallo spirito di rivalsa (verso gli avversari) al servilismo (verso i propri beniamini), nel quadro di un rapporto paternalistico e premoderno con il potere, fatto di soggezione, sudditanza e clientela.

Una parte del giornalismo – una parte, appunto: esistono delle lodevoli eccezioni – avalla questo punto di vista, e conforta i pregiudizi del pubblico. Molti protagonisti dell’informazione si sono ormai trasformati in propagandisti e si sono messi sotto l’ala protettrice dell’uno o dell’altro padrone. Giannino richiama invece i suoi ospiti alla testardaggine dei dati e delle statistiche, evidenzia le incongruenze delle loro promesse e ne sottolinea l’irrealizzabilità o la nocività. Non è l’unico a farlo, in Italia; ma non si trova certo in una compagnia molto nutrita. E questo perché numerosi suoi colleghi – un po’ per colpe individuali e un po’ per i difetti strutturali del sistema informativo – preferiscono la strada breve, le interviste preconfezionate, le trasmissioni a tesi, gli scontri tra opinioni senza fatti a supporto, la rincorsa verso i picchi d’ascolto a scapito della professionalità e dell’approfondimento.

Questo atteggiamento non è nuovo – di “giornalisti dimezzati” Pansa parlava già molti anni fa – ma oggi sembra prendere una piega inedita. Il declino di influenza e prestigio dei media tradizionali e più in generale del ceto intellettuale si incrocia infatti con una diffusa voglia di conformismo e con la criminalizzazione del dissenso, a beneficio delle forze politiche dominanti.

Un giornalismo nuovo?
È una situazione spiacevole, ma potrebbe suscitare una reazione uguale e contraria, di segno positivo. Ci vuole un nuovo giornalismo, per avere una nuova politica. Un giornalismo vero, duro, serio, professionale, che non faccia sconti a nessuno e che riaffermi il primato della competenza e dei fatti sulla ciarlataneria e sull’aria fritta. Un giornalismo che faccia domande e pretenda risposte, che si conquisti i galloni sul campo e non nei corridoi dei ministeri. Un giornalismo consapevole del proprio ruolo, non pagliaccesco e delirante come quello che abbiamo oggi, fatto di sediate in diretta e soffietti filogovernativi. Un giornalismo che veda i governanti pro tempore come rappresentanti al servizio della comunità e non come dei potenti da compiacere. Un giornalismo fatto da giornalisti, in definitiva: cioè da schiene dritte e non da adulatori e postulanti in cerca di poltrone come consiglieri del principe.

Lo diciamo anche nel loro interesse. I principi della politica hanno vita breve: quando si è capito il bluff, si ritrasformano in rospi.

www.iliberali.org

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