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Il grande macigno

Il grande macigno
Il debito pubblico - o debito delle amministrazioni pubbliche - è rappresentato dall'esposizione di uno Stato e degli altri soggetti pubblici dello Stato stesso, nei confronti di soggetti economici terzi.

La crisi finanziaria globale in atto oramai da oltre un decennio, ha causato un aumento vertiginoso dei debiti sovrani di tutti gli Stati nazionali delle così dette “economie avanzate”.
Per debito sovrano deve intendersi il debito accumulato da uno Stato nel corso del tempo per far fronte alle proprie esigenze di bilancio.

In una visione ideale dello Stato, questo dovrebbe fornire ai propri cittadini i servizi utilizzando esclusivamente le risorse provenienti, anno per anno, dal gettito derivante dal prelievo fiscale (imposte e tasse) ed eventualmente dai proventi attivi derivanti dalle attività svolte dalle imprese e/o dalle industrie di proprietà dello Stato stesso (se esistenti).

Gli Stati hanno, invece, impostato e finanziato i loro bilanci, in molti casi anche per motivi legati all’acquisizione del consenso popolare (elettorale), ricorrendo all’indebitamento, purtroppo, anche per finanziare la spesa corrente dei loro bilanci.
In estrema sintesi, il debito pubblico si crea quando le uscite dello Stato sono maggiori delle entrate (deficit), e quindi lo Stato per finanziarsi, ricorre al credito da parte di soggetti investitori terzi.
E’ per questa ragione (acquisizione del consenso elettorale), che quasi tutti i Paesi ad economia avanzata in cui vigono regimi di democrazia parlamentare, come per esempio i Paesi del G7, cioè Stati Uniti, Canada, Giappone, Gran Bretagna, Germania, Francia ed Italia, hanno fatto registrare nel corso del 20° secolo ed ancor più in questo primo scorcio del 21° secolo, una tendenza generalizzata - pur se con valori tra loro diversificati - alla crescita dei rispettivi debiti sovrani.

Va comunque precisato, che ciò che conta non è mai il valore assoluto del debito di uno Stato, ma quello in rapporto al Prodotto Interno Lordo (PIL) corrente del Paese.
Infatti, è dal prelievo fiscale, che è direttamente proporzionato al PIL, da cui dovrebbero provenire le risorse, sia per finanziare le spese di bilancio, sia per ammortizzare il debito stesso - o almeno a pagarne i relativi interessi - altrimenti, lo Stato stesso, dovrà ricorrere ulteriormente al prestito di denaro da parte di soggetti terzi, generando così ulteriore deficit, che andrà anno dopo anno ad aumentare ulteriormente il debito, rischiando così di creare un circolo vizioso.

Gli accordi di Maastricht (Trattato di Maastricht), sottoscritti da alcuni Paesi dell’Unione Europea - tra cui l’Italia, individuarono nel 60% il confine superiore di accettabilità per uno Stato del rapporto debito pubblico/PIL, prevedendo sanzioni o disincentivi per gli Stati che avessero sforato questo tetto o che, avendolo già fatto in passato (vedi Italia), non intraprendessero incisive politiche di risanamento dei conti pubblici e quindi di riduzione del debito sovrano.

Posto quindi che ogni Stato sovrano si finanzia, almeno in parte, emettendo titoli obbligazionari (buoni), la situazione risulta essere diversa se i creditori, ovvero i detentori di tali titoli (buoni), sono le famiglie e/o le imprese private (banche commerciali, ecc.) dello stesso Stato (debito domestico) o di altri Stati (debito estero), ovvero istituzioni economiche internazionali come banche commerciali estere, il Fondo Monetario Internazionale, il Fondo di stabilità europeo e/o la Banca Mondiale, ecc.
Nel primo caso (debito domestico), nella gestione del debito sovrano, si tratta principalmente di un problema di equilibri politici interni su chi debba sostenere - all’interno del Paese - l’onere fiscale del debito.
Nel secondo caso (debito estero), il drenaggio di risorse, derivante dal pagamento all’esterno dello Stato stesso, degli interessi passivi (o comunque di gran parte degli stessi), può deprimere l’economia interna dello Stato stesso, determinando così anche in questo caso, un circolo vizioso.

In linea di principio, uno Stato non è mai esposto al rischio di bancarotta se il suo debito sovrano è in valuta nazionale e non indicizzato all’inflazione; per pagarlo può infatti decidere di stampare moneta, a meno che non esista una clausola di non salvataggio fra lo Stato stesso e la sua Canca Centrale (no bailout clause).
In tal modo, esso (Stato) genera - con la stampa di valuta - anche inflazione e beneficia anche Lui, - come ogni altro debitore - della riduzione del valore reale del debito (ovviamente con tutte le problematiche inter-connesse alla ricaduta sull’economia reale dello Stato stesso, derivanti dalla svalutazione della propria moneta quali ad esempio l’approvvigionamento all’estero delle materie prime, ecc.).
Questa strada, non è invece percorribile, se il debito sovrano è in valuta estera; un’evenienza di questo tipo causò, per esempio, verso la fine del 20° secolo la bancarotta del debito sovrano dell’Argentina e di alcuni altri Stati del sud-est asiatico.

Questa via d’uscita, non è però comunque praticabile negli Stati aderenti all’euro, che non possono (pur volendolo) più ricorrere a questa strategia perché il Trattato di Maastricht impone la “no bailout clause” - in pratica nessuno Stato sovrano dell’Unione può salvarne un altro - e ciò rende vulnerabili, in periodi di prolungata bassa crescita del PIL, di tutti Paesi dell’Unione con più alto debito sovrano così come l’Italia.

La bancarotta di uno Stato sovrano, è certamente un evento raro ed estremo e come tale fortemente temuto dai mercati finanziari di tutto il mondo, in quanto può provocare all’interno dello Stato stesso, i fallimenti delle banche commerciali ed in generale una crisi generalizzata del sistema finanziario che - propagandosi per contagio all’economia reale - genererebbe a catena effetti disastrosi.

Esistono comunque, anche all’interno dell’area euro, dei casi eccezionali che visti dall'Italia sembrano utopie.
Ad esempio l'Estonia, piccolo paese baltico (ex URSS) con appena 1,3 milioni di abitanti, vanta un primato incontrastato con un rapporto debito pubblico/PIL intorno al 10%.
Il caso estone, è forse il più eclatante, ma non è isolato; sono 11 sui 28 membri dell'Unione i Paesi con un livello, rapporto debito pubblico/PIL, al di sotto della fatidica soglia del 60%, che insieme al livello di deficit/Pil inferiore al 3% è diventato il dogma della politica di bilancio europea (dogma liberamente accettato anche dell’Italia con la firma dei vigenti trattati europei) dagli anni ‘90 del secolo scorso ad oggi.
Cinque di questi sono nell'area euro, mentre sei hanno deciso di restarne fuori, con una forbice che va dal 9,8% dell'Estonia fino al 52,5% della Polonia, con in mezzo uno dei Paesi fondatori della Ue, il Lussemburgo, patria del presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, e la Bulgaria, entrambi sotto il 30%, ma anche Lituania e Lettonia (il Paese del rigorista Valdis Dombrovskis, per cinque anni premier ed ora Commissario agli affari economici), le scandinave Danimarca e Svezia ed altri Paesi dell'Est come Romania, Repubblica Ceca e Slovacchia.
In alcuni di essi, il basso livello di debito, è rimasto costante dal 2012 a oggi, come in Estonia e Lussemburgo, pochi sono stati gli scostamenti in Slovacchia e Polonia, al di sopra del 50% del PIL; altri, come Danimarca, Lettonia e Repubblica Ceca, hanno imboccato negli ultimi anni un percorso in discesa, la prima dal 45,2% del 2012 al 38,3%, la seconda dal 41,4% al 39,9%, la terza dal 44,7% al 40,7%, mentre in Bulgaria, Romania e Lituania negli ultimi cinque anni si è registrato un peggioramento, ma sempre rimando al di sotto del 60% del rapporto debito pubblico/PIL.

Per meglio comprendere quali possano essere le voci di spesa che possono incidere sulla determinazione del deficit (annuo) di uno Stato - secondo i dati di EUROSTAT - in media nei ventotto Stati membri dell’unione, la spesa sociale (welfare) vale il 29,5% del PIL, in Romania il welfare rappresenta il 15,6% del PIL, in Bulgaria il 17,4% del PIL, in Italia questa voce vale ben un terzo del suo Prodotto Interno Lordo.
Per una volta anche la Germania non è tra i primi della classe, ma punta rapidamente ad avvicinarsi all'obiettivo debito pubblico/PIL del 60%, avendo fatto registrare un debito pubblico al 69,2% del PIL nel 2016 rispetto al 79,7% del 2012.
Gli altri Paesi dell’unione europea fuori rotta insieme all’Italia, sono Portogallo, Spagna e Grecia, ben oltre quota 100% di rapporto tra debito pubblico e PIL.

Ma perché il criterio del debito è così importante?
Con l'entrata in vigore del fiscal compact - che Gran Bretagna e Repubblica Ceca non hanno sottoscritto - è possibile l'apertura di una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea, per i Paesi che hanno un livello superiore al 60% e non riducono di almeno un ventesimo l'anno la quota di debito che li separa da quella soglia.

Nel ragionamento complessivo, si deve comunque tenere conto che se uno Stato è molto indebitato in termini assoluti, ma che nonostante ciò riesce con la sua produzione complessiva, a poter generare un’adeguata capacità di risanamento, è comunque sicuramente “meglio visto” - almeno agli occhi degli investitori - rispetto a uno Stato magari poco indebitato in termini assoluti, ma che non riesce - avendo un PIL ancora più scarso - a reperire le risorse utili per poter fronteggiare tale esposizione.

In questo complesso ed articolato quadro generale, risulterebbe determinate per l’Italia una drastica riduzione del suo debito pubblico (2.407 miliardi di euro), debito, che se è vero che in valore assoluto non è sostanzialmente dissimile a quello del Regno Unito, Francia o Germania, lo è il suo rapporto con il PIL del Paese di riferimento.

Vale la pena ricordare che il debito pubblico italiano è in valore assoluto il terzo più alto al mondo.
Nnella speciale classifica dei paesi con i debiti pubblici maggiori al mondo, primi sono gli Stati Uniti d’America con 18.237 miliardi di euro - ma con un PIL di 19.360 miliardi di dollari, secondo è il Giappone con 10.557 miliardi di euro - ma con un PIL di 5.405 miliardi di dollari, terza è l’Italia con 2.407 miliardi di euro, a seguire vengono il Regno Unito con 2.345 miliardi di euro, la Francia con 2.173 miliardi di euro, la Cina con 1.684 miliardi - ma con un PIL di ben 23.120 miliardi di dollari, la Germania con 1.544 miliardi di euro - con un PIL di 4.150 miliardi di dollari, l’Olanda con 475 miliardi di euro, ecc.

Il prodotto interno lordo (PIL) è il valore monetario di tutti i beni e di tutti i servizi che vengono prodotti all’interno di un Paese (Stato) da parte di operatori economici residenti e non residenti, per un periodo di tempo generalmente coincidente ad un anno e destinati al consumo, agli investimenti o alle esportazioni.

Il PIL non è quindi, solamente il totale della produzione, quanto anche, di contro, il valore complessivo delle spese e degli investimenti o ulteriormente, la somma dei redditi dei lavoratori e dei profitti delle imprese, a loro volta in grado di spingere o comprimere la spesa e gli investimenti stessi.

La riduzione del debito pubblico italiano, dovrebbe essere fatta, non perché lo chiede la Commissione Europea - che comunque agisce in base a trattati liberamente firmati dallo Stato italiano - ma perché ciò consentirebbe di liberare importanti risorse finanziarie, che anziché essere destinate al pagamento degli interessi sul debito pubblico, potrebbero essere più opportunamente destinate ad altri capitoli di spesa dello Stato, producendo conseguentemente crescita e sviluppo del Paese.
Ciò consentirebbe, anche se gradualmente, di andare a diminuire l’enorme pressione fiscale (sia diretta che indiretta) che abbiamo oggi in Italia, sia sulle persone fisiche che sulle imprese, cosa che a sua volta libererebbe risorse economiche – con l’aumento del reddito disponile delle famiglie - favorendo così ulteriormente sia la ripresa dei consumi interni e quindi dell’offerta di lavoro.

In questi ultimi anni l’Italia, più di altri Paesi dell’eurozona, visto l’enorme ammontare del suo debito pubblico, ha comunque beneficiato del bassissimo costo del denaro, con la Banca Centrale Europea (BCE), che oltre ad aver tenuto i tassi addirittura in territorio negativo, ha con una politica monetaria ultra-espansiva attraverso il discusso - quantitative easing (QE) - agevolato e non poco l’abbassamento del costo degli interessi sul debito sovrano dell’Italia.

Questo fatto, ci porta ulteriormente a dire - che visto i bassi tassi d’interesse sul debito - se in Italia si fossero attuate politiche economiche che avessero portato un tasso di crescita del PIL maggiore del tasso d’interesse dei titoli di Stato emessi, avremmo potuto avere un avanzo primario, che avrebbe portato il rapporto debito/PIL a decrescere, abbiamo invece preferito (con tutti i governi che si sono susseguiti), non paghi dell’enorme debito pubblico già accumulato, continuare a finanziare parte del bilancio dello Stato a debito, continuando imperterriti a farci prestare soldi dal “sistema”.

Tabella dell’andamento del debito pubblico italiano dal 1980 ad oggi anche in rapporto al PIL:
(vedere immagine)

Come si può facilmente comprendere dalla lettura della sovrastante tabella, in meno di 40 anni, dal 1980 al 2017 - il debito pubblico italiano è cresciuto di quasi 20 volte, ma nello stesso periodo di tempo il PIL è cresciuto di poco più di 7 volte, portando così il rapporto deficit/PIL dal 56,08% del 1980 al 131% attuale.

Il declino dell’Italia negli anni, risulta del tutto chiaro ed incontrovertibile, ma fortunatamente almeno fino ad ora, la forza del suo sistema industriale e l’attivismo di almeno una parte della sua società, restano una concreta speranza di poterlo fermare.

E’ ovvio che si devono attivare, quanto prima, serie politiche riformatrici con la assoluta priorità alla riduzione del debito pubblico.

Tipicamente, come abbiamo già detto, un debito pubblico di uno Stato si può ridurre con più crescita economica, ma purtroppo in Italia, vista l’entità del suo debito pubblico, combinata alla sostanziale perdita della sovranità monetaria e di bilancio, che ha tolto allo Stato italiano sia la possibilità di stampare moneta per ripagare il debito, che di stimolare l’economia con mega-deficit - vietati dal vincolo del pareggio annuo di bilancio – impediscono di fatto, l’attivazione di sufficienti stimoli monetari e fiscali per muovere il bilancio e stimolare una robusta e duratura crescita.

L’Italia spende decine e decine di miliardi di euro l’anno, per pagare gli interessi sul suo debito pubblico, risorse che vengono sottratte al bilancio della Stato e che invece potrebbero essere più opportunamente utilizzate per detassare i redditi e stimolare così, sia la ripresa dei i consumi interni, sia lo sviluppo dell’industria privata, sia per corposi investimenti pubblici.

Che cosa fare quindi?
Innanzi tutto mettere in atto politiche che non aumentino ulteriormente il deficit e conseguentemente il debito pubblico.

Come diminuire il peso dell’enorme macigno che è il debito pubblico italiano?
Certamente è da escludere il ricorso al patrimonio privato (tassa patrimoniale), tanto cara ad una parte dei partiti politici italiani (non solo di sinistra), che oltre a motivazioni di carattere etico, avrebbe certamente un forte impatto depressivo generale sull’economia del Paese.

Si potrebbe invece fare attraverso un’operazione straordinaria sul patrimonio pubblico che potremmo definire “patrimonio pubblico contro debito”.

Lo Stato italiano, nella sua più ampia accezione - quindi compresi tutti gli Enti Locali - ha un enorme patrimonio d’immobili, partecipazioni e concessioni di vario genere che potrebbero essere trasferiti (cartolarizzati) ad un soggetto terzo (sempre di proprietà dello Stato) allo scopo di valorizzarlo, metterlo a reddito, emettere obbligazioni (ventennali o trentennali) basate sul rendimento stesso e pagare con queste una parte dei titoli di debito che giungono di volta in volta a maturazione, invece che con cassa derivante da nuovo indebitamento, ovvero dalle aste periodiche di rifinanziamento.
Questa soluzione, consentirebbe inoltre di vendere sia gli immobili, che le partecipazioni che le concessioni, in modo frazionato ed in un periodo di tempo sufficientemente lungo per evitare svendite e/o saturazione del mercato nel breve periodo.

Ma quanto vale il patrimonio pubblico disponibile dello Stato?
Le stime più attendibili lo stimano tra i 600 e gli 800 miliardi di euro, anche se non è stato mai fatto un censimento combinato del patrimonio pubblico combinato con la stima del valore finanziario dello stesso.

Molti importanti analisti concordano comunque, che già una riduzione del debito pubblico italiano di almeno 300 miliardi di euro, porterebbe un effetto positivo sul “Sistema Paese” portando un risparmio annuo della spese per interessi di almeno 15 miliardi di euro - quasi un punto del PIL - oltre che a portare un effetto di fiducia sul debito pubblico italiano da parte del mercato finanziario con un conseguente incremento del voto di affidabilità, si ridurrebbe così anche il “premio di rischio” oggi preteso dagli investitori per comprare i Titoli di Stato italiani.
Anche le famigerate agenzie di rating andrebbero così migliorare il giudizio sul debito pubblico dell’Italia, che non potrà certamente essere una tripla A (AAA), ma nemmeno essere così come adesso ad un gradino di “titolo spazzatura”.
Ciò porterebbe ad un ulteriore risparmio di circa 15 miliardi l’anno in relazione alla spesa per interessi rispetto a quella attuale - per il decremento dei tassi d’interesse in funzione del rating.
Tutto ciò andrebbe inoltre a migliorare la solidità di tutto il sistema finanziario nazionale, con un ulteriore benefico impatto positivo sul credito a famiglie ed imprese, e quindi al sistema produttivo e dei consumi interni.

Per questo è pensabile in maniera razionale, che un’operazione di cessione cartolarizzata e differita di 300 miliardi di patrimonio pubblico disponibile, sarebbe già sufficiente per stabilizzare il sistema e renderlo suscettibile di ulteriori riforme del modello.

In ultimo, ma non meno importante, darebbe all’Italia più forza negoziale per trattare in sede Europea, le regole di ordine contabile, evitando di farsi imporre gioghi restrittivi così come fino ad oggi è nei fatti accaduto.

L’operazione, se pur complessa, è tecnicamente fattibile e dovrebbe essere messa in agenda come priorità assoluta da parte di tutte le forze politiche e classificata come di “interesse nazionale” per i vantaggi certi che darebbe al Paese ed a tutti i suoi cittadini.

Quello che è certo ed incontrovertibile agli occhi di tutti, è che un debito pubblico così grande è “un grande macigno” - un elemento inabilitante - per il futuro del nostro Paese, anche se appare evidente, che nessuna forza politica – almeno tra quelle attualmente presenti in parlamento - realmente se ne preoccupi.


Fabrizio Biagioni
Segretario Regionale della Toscana del PLI
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