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Fondazione Luigi Einaudi

LE CONSEGUENZE DEL NO EURO

LE CONSEGUENZE DEL NO EURO
Chi sostiene l’uscita dell’Italia dall’euro lo fa affermando che ce ne verrebbero due vantaggi: la possibilità di svalutare la moneta, e dunque rendere le nostre esportazioni più competitive; il sottrarsi alle regole europee sul bilancio pubblico, e dunque la possibilità di abbandonare la cosiddetta austerity.

Si tratta in entrambi i casi di vantaggi impossibili.

In base al trattati, un Paese che ha aderito alla moneta unica non può uscirne senza attivare l’art. 50, cioè senza uscire dall’Unione. Questo vorrebbe dire uscire dal mercato unico. Avremmo una nuova lira, o come altro la vorremo chiamare, che immediatamente si svaluterebbe rispetto alle altre monete, euro compreso. Ma le imprese non ne trarrebbero grandi benefici, perché contestualmente perderemmo l’accesso al mercato unico europeo, verso il quale sono dirette gran parte delle nostre esportazioni.


Dall’altro lato non potremmo fare a meno di continuare a comprare all’estero, al di fuori dell’Unione, tutte le materie prime che ci sono essenziali - pensiamo solo a gas e petrolio. La svalutazione farebbe aumentare il costo di queste importazioni non sostituibili. La nostra bilancia conmerciale peggiorerebbe, non migliorerebbe. E i prezzi interni aumenterebbero velocemente, riducendo il potere di acquisto di tutti coloro che vivono del proprio salario.


Fuori dall’Unione non saremmo tenuti a rispettare le regole imposte al bilancio pubblico dal patto di stabilità e crescita. In astratto, potremmo dimenticarci il famoso limite del 3% al deficit pubblico e ogni percorso di rientro dal debito. Qualcuno di noi fa fatica a considerare il debito pubblico una panacea. Altri potrebbero ricordare che ci toccherebbe modificare in tutta fretta la Costituzione, nella quale abbiamo inserito un seppur debole vincolo all’equilibrio di bilancio.


Ma lasciamo perdere questi dettagli. La verità è che neanche fuori dall’Unione potremmo in realtà consentirci maggior deficit e maggior debito. La nuova lira tenderebbe a svalutarsi; i prezzi interni a salire. La BCE non acquisterebbe più il nostro debito. Per convincere i privati, italiani e stranieri, a comprare i titoli di Stato italiani, dovremmo pagare tassi di interesse molto più alti di oggi. E i potenziali acquirenti non si fiderebbero affatto di un paese che aggiunge ulteriore debito al gigantesco peso da cui è già gravato. Per trovare qualcuno disposto a comprare i nostri titoli, o a rinnovare quelli che detiene, dovremmo porre in atto paradossalmente politiche più e non meno "austere" di quelle di oggi.


È lecito che ciascuno abbia le proprie opinioni. Ma perché si possano fare scelte consapevoli, bisogna riflettere sulle loro potenziali conseguenze. L’uscita dall’euro non darebbe ossigeno alle imprese esportatrici; aumenterebbe il costo delle importazioni, e quindi l’inflazione interna. E il bilancio pubblico non potrebbe fornire alcun  sollievo, gravato da una massa velocemente crescente di pagamenti per interessi sul debito. A meno che non si pensi di non onorare il debito. Il che comporterebbe - fra l’altro - il più gigantesco esproprio dei risparmi degli italiani che si ricordi. Almeno 200 volte il famigerato prelievo notturno sui depositi bancari del governo Amato del 1992. Se questa  è la proposta, si abbia il coraggio di renderla esplicita.

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