Starbucks, Uber, Flixbus: battaglie di interessi senza tutelare chi consuma
Proprio recentemente ho passato qualche giorno a Londra. Lì, da qualche tempo, risiede un amico di lunga data, espressione della variegata colonia italiana che si è trasferita nella city in cerca di un futuro un po’ migliore rispetto a quello che lo attendeva in Italia. Tra la visita a un museo e una passeggiata nei parchi, più di una volta mi è capitata l’occasione di fermarmi da Starbucks, per ricaricarmi con un pessimo Espresso “solo” (ma era ciò che lecitamente mi attendevo) o di servirmi di Uber, quando, ritrovatomi senza saperlo nella zona di Stratford, mi si era reso necessario ritornare a South Kensington in fretta e furia e, possibilmente, spendendo poco. Quando in Italia è scoppiato il dibattito sulla diffusione di prodotti e servizi messi a disposizione dalle “multinazionali”, sono rimasto esterrefatto, soprattutto per i toni e le argomentazioni utilizzati da chi non ha esitato ad urlare fin da subito allo scandalo e al complotto a favore delle famigerate “lobby”.
In questo contesto, fulcro della discussione sono diventate le possibili minacce al sistema economico e produttivo di casa nostra. Nessuno, eccetto qualche rara eccezione, che abbia messo l’accento sulle opportunità che i nuovi modelli distributivi e di sharing economy potrebbero offrire sia in termini di occupazione che di scelta per i consumatori; nessuno, che si sia posto l’interrogativo di come creare anche in Italia un terreno fertile per la nascita e il radicamento di nuove start-up, che possano almeno in parte colmare il deficit di occupazione di un paese col 40% di disoccupazione giovanile (ricordiamo che Flixbus, tanto per fare un esempio, non è la creazione di qualche perfido banchiere col naso adunco, ma l’intuizione di 3 giovani di Monaco di Baviera che hanno tentato di “replicare” su ruote il “modello Ryanair”). Non è un caso. Da decenni, la nobiltà di termini come “patriottismo” e “interesse nazionale”, abusati e volontariamente distorti nella loro accezione per fini meramente politici, è servita, purtroppo, esclusivamente allo scopo di difendere monopoli, corporazioni, rendite di posizione che nulla avevano a che vedere con la modernizzazione del paese e l’interesse collettivo. E allora talvolta diventa “nazionalismo” salvare Alitalia o Montepaschi coi soldi dei contribuenti; talvolta diventa “nazionalismo” impedire l’ingresso nel mercato di competitor che possano migliorare l’offerta e garantire vantaggi ai consumatori.
Il tutto giustificato in nome dell’eticità dello Stato (citata giusto giorni fa anche da Fusaro in un intervento sul tema) a tutela dei diritti contro la “deregolamentazione” e il “competitivismo globale”. Che cosa poi ci sia di etico in uno Stato che che ti spia i conti correnti, ti massacra di tasse, non tutela la proprietà e la sicurezza, e che già che c’è ti obbliga a montare su un taxi con le tariffe imposte da un burocrate, ci sfugge, ma magari un giorno Fusaro ce lo spiegherà, senza magari che Hegel si rivolti nella tomba. Il caso Uber è emblematico. All’analisi di alcune proposte, che andavano nella direzione di liberalizzare il mercato senza penalizzare i tassisti (attraverso l’assegnazione di una seconda licenza gratuita da poter cedere o eventualmente vendere), è stato preferito lo scontro ideologico alimentato dall’enfasi garantita dal glossario della politica.
Chissà cosa ne penserebbe oggi Bernardo Caprotti, lui si un grande italiano che ha fatto grande l’Italia. “Siamo italiani, siamo privati, ci attaccheranno” scriveva nel testamento. “Mai con le Coop, meglio un alleato e una collocazione internazionale”. Nessuna protezione quindi, nessuna barriera all’ingresso, nessuna richiesta di un trattamento privilegiato data l’italianità dell’azienda. Ma l’interrogativo su come difendersi da “uno Stato ostile che non tollera il successo”.
Alessandro Aragona - www.ilconservatore.com