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Perché manca un Macron italiano?

Perché manca un Macron italiano?
Molti in Italia, tra forze politiche, opinionisti e appassionati di politica, hanno mostrato entusiasmo per il neo-Presidente francese Emmanuel Macron che ha vinto con una maggioranza schiacciante il secondo turno delle presidenziali contro Marine Le Pen. Gli stessi, stanchi, avversi o oramai tiepidi nei confronti di Matteo Renzi, un Macron che non ce l’ha fatta, sperano in una riscossa europeista e liberale anche in suolo italiano, dove tuttavia le speranze che ciò accada sono piuttosto limitate, per non dire nulle, almeno nel breve periodo. Vediamo perché.

a) Il sistema elettorale. Se la legge della Consulta non viene cambiata in senso maggioritario non vi sarà altra scelta che quella di una coalizione tra differenti forze politiche poiché la possibilità che qualcuno raggiunga il 40% sembra oggi fuori discussione. Un siffatto scenario implica due deduzioni: una En Marche italiana, anche se avesse un successo straordinario in pochi mesi, sarebbe una delle tante forze parlamentari su cui costruire un accordo di coalizione e l’immaginario Macron italiano non potrebbe puntare ad una vittoria netta come in Francia. Al massimo potrebbe aspirare ad essere l’incaricato a formare un governo. E’ pur vero che la bassa soglia di sbarramento può agevolare operazioni corsare per nuovi movimenti che aspirino al Parlamento, ma il sistema politico italiano costringe ad impostare queste operazioni in un periodo più lungo.

b) Il Partito Democratico. Renzi è molto indebolito, il partito frazionato, rissoso e con una serie di tic della vecchia sinistra mai sopiti nemmeno nell’epoca renziana. Nonostante questo Renzi non è ancora Hollande e il PD non è il partito socialista francese. Difficile, se non cambia il vento, che il PD sfondi quota 30% alle prossime elezioni, ma è ancora più improbabile che scenda al 7% come il Partito Socialista in Francia.

c) Berlusconi. Questo è forse il punto più dolente. In mezzo al caos proporzionalista il Cavaliere ha riacquistato centralità e ragionevolezza. È un perno del sistema perché è a capo di una forza in calo di consensi da anni ma capace forse di garantire al PD una stabilità parlamentare. Questo è l’elisir di lunga vita di Berlusconi che, allo stesso tempo, soffoca il sorgere di movimenti sostitutivi rispetto a Forza Italia. È un veto-player potentissimo perché condiziona il gioco politico e mediatico. Chiunque, partendo da Forza Italia, abbia provato un distacco in solitaria si trova oggi con movimenti piccoli e con risicati spazi di crescita, indipendentemente dalla direzione politica scelta (si pensi ad Alfano, Fitto, Parisi, Verdini). Laddove un Macron italiano, di destra moderata perché è lì lo spazio potenziale, potrebbe sorgere non sembra esserci la luce per far germogliare il seme.

d) L’establishment italiano. Macron si è mosso con un progetto ben preciso contornato e aiutato da banchieri, industriali ed enarchi. In Italia, come ha scritto Giuliano Ferrara nel suo saggio dedicato a Renzi, l’establishment è sempre stato diviso in bande e un po’ pezzente, sempre pronto a chiedere allo Stato e alla politica e mai a costruire progetti di governo per il Paese. Oggi gran parte della classe dirigente preferisce studiare i 5 stelle o restare tiepida ma vicina a Renzi. Non si imbastisce una operazione da zero senza sostegno finanziario, connessioni e supporto mediatico (pensate proprio alla storia dei 5 stelle), pur se il messaggio politico e i cittadini restano il principale vettore per il successo.

e) Il 2013 è stato l’anno elettorale che ha consacrato la rottura di rappresentanza tra partiti tradizionali e newcomers. Il motivo dell’insuccesso di molti movimenti politici italiani è l’incapacità di segnare una rottura netta con il passato. Macron si è dimesso un anno prima delle elezioni e poi ha avviato il suo movimento. In Italia, per ora, i potenziali nuovi interpreti politici restano ai margini oppure saldamente ai posti di comando del governo (vedi Calenda).

f) Il Movimento 5 Stelle. Qui la Le Pen non ha il volto di Salvini (checché ne pensi il segretario leghista), ma quello di Grillo. I francesi avevano l’opzione del voto ideologico (anti-destra estrema) perché la Le Pen ha un partito ideologicamente forte e radicato da decenni. Un pezzo di Francia moderata (e gollista) ha così ingoiato Macron al secondo turno. In Italia il voto ideologico non esiste per nessuno: la Lega, per storia ed evoluzione, non è il FN, il centrodestra moderato non ha la tradizione gollista, Renzi e compagni scissionisti (che non sono Melenchon) hanno distrutto la sinistra sia ideologicamente che politicamente. Per questo motivo l’Italia resta il Paese più esposto al successo anti-establishment: perché esiste un grande partito davvero populista e a-ideologico verso cui non può esserci una così forte motivazione al voto contrario (anche perché sono politicamente vergini e non hanno mai governato) e che può pescare in un elettorato oramai totalmente privo di radicamento. Questo contesto riduce lo spazio per operazioni tecnopopuliste come quella di Emmanuel Macron che ha ben goduto di un avversario così ideologicamente schierato come Marine Le Pen e per questo così divisivo.

Esiste una speranza? Nel breve periodo sembrerebbe proprio di no. Tuttavia nel medio-lungo periodo un movimento capace di nutrirsi di ciò che manca al PD e alleati, cioè liberalismo economico (capace di aggredire rendite come pensioni e impiego pubblico), maggiore durezza sull’immigrazione, minor tasso di politically correctness e reale riformismo europeo (non le scemenze storiche su Ventotene e quelle presenti sulla generazione Erasmus, ma una riflessione profonda sulle istituzioni e il ruolo geopolitico europeo), potrebbe guadagnare spazio in pochi anni. A patto che vi sia una leadership di rottura rispetto al vecchio sistema, sia berlusconiano che renziano, con in prima fila profili generazionali, umani e comunicativi molto differenti dai bolliti protagonisti della seconda repubblica.

Lorenzo Castellani
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